Quella militare non è certo una carriera da primi arrivati; comporta sacrifici, scelte obbligate, la capacità di sacrificare tutto, spesso anche gli affetti, per ciò che si ritiene una vera e propria missione. Le conseguenze non sono sempre le più rosee e Giorgio Rotundo, ufficiale medico dell’Esercito italiano, è venuto a parlarcene nell’ultimo incontro con ospite di quest’anno accademico.
“Mi auguro che nella vostra vita dobbiate soffrire”. È una frase estremamente incisiva; forse nessuno dei presenti si aspettava davvero di sentirla dal relatore, ma rappresenta il vero filo conduttore di tutto l’incontro. Non un attacco ma una provocazione, pronunciata, tra l’altro, a fine serata e pensata per suscitare una profonda riflessione. Solo la sofferenza, infatti, fa comprendere cosa ciascuno è disposto a sacrificare per superare l’ostacolo, solo la sofferenza, generando dubbi, rende consapevoli di cosa conta davvero nella vita.
E la vita di Rotundo, in fondo, è stata un costante mettersi in discussione, cercando tra alti e bassi il proprio posto nel mondo. Matura l’idea di frequentare l’Accademia militare durante gli anni del liceo; suo padre era sottotenente e, sebbene parlasse ben poco della sua carriera, lascia nel relatore l’idea di seguire le sue stesse orme. Un giorno è sorprendentemente proprio suo padre a mostrargli una pagina della Gazzetta Ufficiale in cui si indicevano i concorsi per l’Accademia militare di Modena. Decide di parteciparvi, viene ammesso, e nel contempo frequenta i corsi di medicina e chirurgia all’Università. “Vivevo l’Accademia come la mia vera unica realtà”, afferma Rotundo ripensando a quegli anni, “ma ciò diventò ben presto una vera e propria violenza verso sé stessi”; voleva dire vivere interamente trasformando la norma dell’Accademia nella propria norma di vita, non conoscendo altro al di fuori di essa.
Sono anche queste le ragioni per cui, terminata l’Accademia, Rotundo vivrà la sua carriera come ufficiale medico in modo molto particolare. Da un lato la sua formazione, dall’altro, appunto, le sofferenze viste e vissute sul campo, lo portano a empatizzare con tutte le vittime dei conflitti, civili e militari. L’esperienza in Afghanistan, in particolare, nel 2007-8, gli fa conoscere la vera guerra sul fronte, in prima linea, con il rischio vero di perdere la vita in ogni istante; in Libia, invece, nel 2011-12, impara a conoscere le fragilità dei militari e a prodigarsi per il loro ritorno in patria, sfidando spesso le gerarchie ma confidando nella propria spontaneità ed esperienza. “E’ un’esperienza”, dice, “ che ti lega visceralmente con chi soffre”
Nel frattempo, Rotundo ha anche costruito una famiglia; è sposato con due figli e per loro, dopo dodici anni di servizio, abbandona per la prima volta la divisa. Verrà richiamato in servizio pieno alcuni anni più tardi, prima a Roma e poi in Libano, per prestare soccorso ai feriti nell’esplosione al porto di Beirut. In questi anni matura, costantemente a contatto con il dolore, una profonda conversione spirituale: ritorna alla fede e vi trova la forza di proseguire con la sua missione. Ad oggi Rotundo è ancora legato all’Esercito; spera di poter di nuovo abbandonare la carriera militare entro il 2025 e di dedicare pienamente il suo tempo alla famiglia (soprattutto a sua moglie, che l’ha sempre sostenuto nel lavoro e con le incombenze familiari) e alla sua professione di chirurgo.