A ben vedere, sin da quando l’Italia è terra d’emigrazione, a partire circa dalla seconda metà dell’Ottocento, non è poi così strano scoprire come buona parte delle attuali famiglie italiane custodisca una qualche avventurosa storia riguardante i propri antenati. Lo scrittore, poeta, nonché giornalista Alessandro Rivali, non a caso, è discendente di una famiglia dalle vicissitudini a dir poco tormentate, ma al tempo stesso incredibilmente affascinanti e avvincenti: è un perfetto esempio, se vogliamo, di come la Storia, quella con la S maiuscola, riesca a inserirsi con effetti talvolta disastrosi, come un fulmine a ciel sereno, nella vita quotidiana delle persone comuni. “Il mio nome nel vento”, dunque, è proprio questo, la storia di una famiglia (nella finzione letteraria i Moncalvi), che nel tentativo di fare fortuna si ritrova a dover sfidare con coraggio tutte le avversità di uno tra i periodi storici più turbolenti della storia dell’umanità: gli anni ’30 e ’40 del ‘900, che videro prima la guerra civile spagnola, e poi la Seconda Guerra Mondiale.
Fin dall’inizio della serata, il nostro autore ha offerto un’interessante quanto calzante chiave di lettura per comprendere meglio il suo libro, ovvero l’episodio mitico del duello tra Achille ed Ettore presente nell’Iliade omerica, che il padre era solito raccontargli da bambino. Ciò che Rivali intendeva sottolineare, evocando questo mito, è proprio la dicotomia tra vittoria (Achille) e sconfitta (Ettore), la quale caratterizza fin dall’inizio tutta la vicenda della sua famiglia, ovvero il tema principale trattato durante tutto l’incontro.
Il nonno paterno del nostro autore, sposatosi di nascosto con una giovane poverissima (e per questo motivo invisa al padre di lui), fugge con quest’ultima alla volta dell’Argentina agli inizi del ‘900. La novella sposa, tuttavia, scopertasi incinta, ben presto non riesce più a sopportare i disagi della navigazione, e la coppia è costretta a scendere a Barcellona, ritrovandosi di fatto senza un soldo. L’abilità di lei nel cucinare i ravioli e i cannelloni, specialità genovesi, li rende in poco tempo famosi nella metropoli spagnola, tanto da riuscire in poco tempo ad aprire un piccolo negozietto e poi ad acquistare un intero palazzotto in una delle vie più importanti della città. Dopo essere finalmente usciti vittoriosi dalla povertà (come Achille) ed essere diventati ora molto ricchi, tutta la famiglia, tra cui il padre, allora bambino, di Alessandro Rivali, si vede crollare il mondo addosso nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1936, quando la città fu messa a ferro e fuoco dalle truppe franchiste e anarchiche: era da poco cominciata la guerra civile. Riusciti a fuggire in Italia da sconfitti (come Ettore) con solamente una parte del denaro che avevano faticosamente guadagnato, acquistano una villa nei pressi di Genova, pronti a cominciare una nuova vita. Poco tempo dopo però lo Scoppio della Seconda Guerra Mondiale sconvolge nuovamente il fragile equilibrio che erano riusciti a creare: la villa viene requisita da un comando nazista e da allora i destini dei genitori e dei loro sette figli si dividono. L’improbabile quanto sincera amicizia tra un ufficiale medico tedesco che rinnegava il nazismo e il padre di Alessandro Rivali durante gli anni dell’occupazione è forse uno degli elementi più toccanti della vicenda familiare, perché fu proprio questo sodalizio che fece comprendere al padre di Rivali la sua vocazione, ovvero la medicina.
L’attenzione di tutto l’uditorio è rimasta alta fino alla fine dell’esposizione, e credo di poter esprimere il pensiero di tutti quando affermo che ciò che ci è rimasto dalla storia della famiglia Rivali è certamente lo sprone a non arrendersi mai, a sfruttare le proprie abilità e le proprie conoscenze per emergere, a rispettare il valore della famiglia e della sua unità, oltreché giungere alla consapevolezza di poter trovare anche nel nemico un’umanità e uno spirito di fratellanza che trascende le divisioni e gli odi instillati nella gente da piccoli uomini a cui la sorte ha sfortunatamente concesso il potere sui molti. In conclusione, si tratta di una storia di persone che hanno vissuto la vita appieno, dalla quale hanno saputo godere delle gioie ma al tempo stesso accettarne anche i dolori. E forse l’insegnamento più grande che possiamo ricavare da tutto ciò è proprio questo: nonostante tutto, non aver paura di vivere.